martedì 28 dicembre 2010

SILENZIO A MILANO





AUTORE: Anna Maria Ortese
PRIMA USCITA: 1958
CASA EDITRICE: La Tartaruga edizioni
PREZZO: 10.80 euro
SINOSSI: sette brani a metà fra racconto e cronaca, istantanee raffinate e attente, raccontano il frastuono e il silenzio di Milano, attraversata dalla stazione alla periferia, in un percorso ideale che partendo dall'ingresso alla città -la stazione- , ce ne allontana gradualmente. Attraverso l'immedesimazione negli sguardi smarriti, nei passi frettolosi, nella preghiera, nello studio e nell'attesa di tutti gli invisibili protagonisti di Milano, l'autrice ci restituisce chiara, ad ogni pagina, l'essenza più bella e più dolorosa di una città ormai vittima dei suoi stessi vizi. 
VOTO: 8,2




Milano mai così bella mi era sembrata: in quei giorni di inizio dicembre, era come coglierne d'improvviso una grazia che era sempre stata invisibile al mio cuore abituato ai pregiudizi su Milano. Per le strade mi accompagnava un ragazzo, che molti anni di oblio mi avevano 
restituito all'improvviso, e che aveva aggiunto alla sua solarità di siciliano un fascino composito, metropolitano, cauto e franco allo stesso tempo. Scanzonato, come quando studiavamo a Perugia, il suo sorriso lo era ancora, ma Milano era ormai nei suoi gesti sotto forma di nuova, piacevolissima misura. Stregata da questo doppio incontro, andai in una biblioteca a cercare di scoprire tutto quello 
che ancora di Milano mi sfuggiva, e presa dalla lettura di una preziosa guida della città, sotto una foto lessi citate alcune parole di "Silenzio a Milano": erano perfettamente aderenti a quelle che erano state le mie impressioni, dovevo assolutamente leggerlo tutto, quel libro.

"Silenzio a Milano" è un libricino minuto, elegante e un po' difficile da trovare, come tutto ciò che è prezioso. La finezza del libro colpisce fin dalla sua confezione: viene spontaneo passare i polpastrelli sulla filigrana spessa del cartoncino di copertina, e l'immagine riportata - in bianco e nero a tutta pagina - mostra sullo sfondo la torre con l'orologio del castello sforzesco, e, in primo piano, un tram fermo a fianco di un signore con un cappotto. E' la Milano degli anni '50, in uno scorcio piuttosto simile a quello odierno, eppure nostalgico nei suoi toni di grigio.

Questo libro è formato da sette brevi pezzi, a suo tempo scritti per un giornale, poi pubblicati in volume per la prima volta nel 1958, e riproposti ancora nel 2004. I sette brani di "Silenzio a Milano" non sono semplici racconti, ma veri e propri ingrandimenti sui molti luoghi pulsanti e meccanici come organi umani, nel grande corpo meneghino. Le parole di Anna Maria Ortese svelano con grazia e dolore i tratti aguzzi e fieri di una città italiana incastonata -forse molto più di tante altre- in luoghi comuni di rara banalità, che ne nascondono la bellezza insolita, e il dignitoso riserbo. 

La maggior parte dei racconti è la cronaca di un'avanscoperta della città ad opera della stessa autrice, la quale all'epoca faceva la giornalista, e per quelle occasioni era accompagnata da un fotografo. Ammalia e persuade il suo stile puramente lirico, che restituisce immagini di tale efficacia e nitore, sufficienti da sole 
a rendere a Milano tutto ciò che le è stato tolto negli ultimi decenni: la fatica, la prudenza, la spiritualità. Troviamo, nelle assonanze della Ortese, la traduzione in parole del leggero sgomento provato in quell'enorme mausoleo che è la stazione Centrale, e scorgiamo anche intuizioni sibilline, che in questo momento storico suonano come una profezia di Cassandra: 

"Grandi e mostruosi idoli usciti dal cervello dell'uomo 
hanno riempito il cielo e coperto gli orizzonti d'erba. 
Si costruisce febbrilmente, si elevano cattedrali ai nuovi dèi: 
la produzione, il guadagno, una felicità apparente dominano. 
Sotto tutto questo riposano la memoria e la bontà dell'uomo." 
(Una notte nella stazione)

In altri casi la giornalista si fa da parte e narra le vicende metropolitane dei vinti di Milano, gli abitanti di una periferia sempre più lontana dalla città: un tassista si chiede perché mai loro siano risospinti da una Milano che cresce non si sa per chi, dato che gli abitanti vengono buttati fuori: 

 "Ma chi c'è nella città? E' forse stata venduta? Per chi costruiscono?"
 (La città è venduta)

A volte, il racconto della Ortese arriva ad una tale suggestione descrittiva, che dalla rappresentazione di un dettaglio si riesce a ricomporre  l'anima intera di un luogo. A volte il narrato passa esclusivamente attraverso gli occhi dell'autrice, e diventa l'esatto ritratto della linea d'orizzonte milanese, e, grazie alla profonda capacità della Ortese di cogliere il senso dell'architettura, dalle parole si ricompongono esatte la pietà e la ferocia di certe costruzioni moderne, come le case albergo, che passano senza soluzione di continuità dall'assistenzialismo alla detenzione, dalla protezione all'oppressione:



 "Invisibile, su ciascuna porta, c'è un cartellino che invita il personale 
 a tenere d'occhio quel professionista o artista o insegnante: la ragazza col golfino 
e la signora coi capelli quasi bianchi, lo studente negro e il vecchio pensionato.
Tutti probabili contravventori della legge, la legge della grande città industriale 
e medioevale insieme, affarista ed ascetica , spregiudicata e prudentissima, 
che dovunque sospetta un'infrazione alla regola, all'ordine stabilito; 
e consiglia continuamente il silenzio, predica incessantemente il silenzio; 
dispone senza stancarsi la condizione prima del silenzio: la solitudine."
(Le piramidi di Milano) 

Infine, la Ortese sparisce del tutto, e seppure narra ancora in terza persona, si fa punto di vista di una strana, infelice coppia: fratello e sorella, i Sanipoli, Masa e Alberto, orfani di un padre morto in un forno che scioglie l'acciaio, e di una madre che non ha retto alla perdita del marito. Genitori semplici e gran lavoratori, dai quali fratello e sorella hanno ereditato lo spirito di adattamento, il senso del dovere, il pensiero pratico e la cristiana fratellanza, religiosa più che emotiva, dogmatica più che affettuosa. Masa e Alberto sono:

"figli della dura vita, della fosca e scialba Milano, figli rassegnati, 
figli obbedienti, figli muti per sempre, col cuore pieno di cose 
e un alto cancello davanti alla mente che gli impediva di uscire, 
di essere, di manifestarsi, di piangere, di parlare."
(Lo Sgombero)

Una silenziosa coppia simbiotica che resta ammaliata e scottata dal fascino di un torinese colto, passionale e politico, che però, quando il partito comunista dai fatti di Ungheria in poi rivela tutta la prpria violenza, perde tutta la sua vitalità, si ammala di vergogna e sparisce, indurendo ancora di più la già grave Masa, e lasciando Alberto col dubbio che per non diventare usurpatori, come tutti gli altri, non basta essere comunisti, ma serve qualcosa di più delicato, come il rispetto dei Sanipoli. Rispetto che però rende persone senza valore, perdenti, perché in un mondo in cui anche i più alti monumenti vengono costruiti con ossa e sangue umani, i Sanipoli non combattono mai contro l'uomo.

"Silenzio a Milano" è un testo degli anni d'oro della letteratura italiana, dei tempi in cui i giornalisti erano veri scrittori e gli intellettuali venivano coinvolti massicciamente nell'industria editoriale, rendendo possibile quel fenomeno culturale vasto vario e vivace che fu il neorealismo, stimolato da una libertà di stampa a lungo preclusa dal fascismo. Anna Maria Ortese è, insieme ad Elsa Morante, la grande personalità femminile della letteratura italiana del secondo Novecento, ma, come la Morante, sconta la popolarità assoluta dei suoi contemporanei uomini: Calvino, Pavese e Moravia. Forse anche questo destino è coerente con l'avvenenza riservata e schiva che caratterizzò la Ortese in vita. O, più probabilmente, da quando abbiamo deciso di sacrificare la cultura, abbiamo anche smesso di riconoscerli certi tesori, tanto più se sono frutto del lavoro di una donna.
E questo, non è certo un male recente.

Ma la bellezza, a volte è segreta persino al tempo; eppure il caso non riesce mai a tenerla nascosta troppo a lungo, e allora un giorno, all'improvviso, questa bellezza ce la ritroviamo davanti, e basta già la prima occhiata per comprenderne la pienezza e la perfezione.










lunedì 27 dicembre 2010

L'ELEGANZA DEL RICCIO


autore: Muriel Barbery
prima uscita: 2006
casa editrice: edizioni e/o
prezzo: 18 euro


Ci vuole pazienza ed umiltà per leggere "L'eleganza del riccio" il caso letterario francese del 2006 scritto da Muriel Barbery, ex docente di filosofia presso un Institut universitaire de formation des maîtres (Istituto universitario di formazione degli insegnanti) ed ora allegramente residente a Tokyo.Dico che ci vuole pazienza perché è un libro di 320 pagine con una dinamica che si riduce a 30, pieno di voli pindarici un po' fini a se stessi e di digressioni filosofiche a volte sul nulla; e dico che ci vuole umiltà perché fin dall'inizio si rivela una debolezza, cioè l'aver affidato ad un espediente grafico la distinzione delle due protagoniste che narrano in prima persona.
In pratica abbiamo capitoli in cui racconta Renée, la prima protagonista, scritti in Times New Roman, che si alternano a capitoli scritti in Arial, quelli in cui prende la parola Paloma, la seconda protagonista. Sarebbe come se in scena la distinzione dei personaggi si affidasse a parrucche di colore diverso, invece che alla loro personalità.
In realtà poi, Renée e Paloma, parlano e pensano nello stesso modo, e questo amalgama troppo le due figure, che sembrano replicate invece che distinte. L'autrice le vuole rendere anime gemelle ai fini della storia, e va bene, però ha messo fra di loro un abisso sociale e temporale troppo vistoso per fregarsene così totalmente delle loro differenze. Insomma, Renée è una portinaia ultracinquantenne che viene dalla campagna e Paloma è la figlia dodicenne di un primo ministro nella Parigi bene.
Che parlino entrambe esattamente come Cacciari mi sembra più un voler mostrare l'erudizione dell'autrice che non un dipingere come stravaganti queste due figure.
Io ci ho messo due mesi a leggere questo libro [due mesi per le prime 150 pagine, una notte per le altre 170] e nel frattempo l'ho tradito con altri sette romanzi, ma non ho mai pensato di abbandonarlo - forse anche perché questo libro me l'ha regalato un Riccio all'inizio di un'altra storia e ci ha messo sopra una dedica, e allora almeno a capire le ragioni di una delle due, di tali vicende, diventava qualcosa di simbolico per me, come un lieto fine.
Non ho pensato di abbandonarlo perché Renée, la protagonista in Times New Roman, la portinaia del palazzo signorile abitato da famiglie alto borghesi, ritiene fondamentale per la sua sopravvivenza rimanere, agli occhi del mondo, ben stretta nelle vesti sciatte ignoranti e scorbutiche del suo ruolo che, come nelle migliori tradizioni, la vuole vedova e con gatto, mentre in realtà, all'interno della sua guardiola, Renée legge romanzi saggi e trattati, quando esce va in biblioteche di filosofia medievale, ai musei e al cinema, e di continuo pensa sul Mondo, sulla Vita, sul Sapere, sulla Bellezza e sull'Uomo; però tiene costantemente la televisione accesa su un programma scemo, all'interno della sua guardiola, così quando si affaccia un idiota del mondo altoborghese abitante della palazzina, per chiedergli della posta o delle piante, sentendo la tv non si fa venire il dubbio che Renée si stia facendo una cultura.
La magia e il fascino di Renée stanno nella sua invisibilità.
Paloma invece, la protagonista in Arial, è una dodicenne disgustata da una famiglia ricchissima composta da: un padre primo ministro cinico e indifferente, una madre reginetta di qualcosa, socialista per convenienza e imbottita di antidepressivi, una sorella che si veste da abitante di banlieu solo per affettazione dei suoi studi filosofici e che ah!, geniale, "è un piccione di nome e di fatto", si chiama Colombe. Paloma progetta di uccidersi con i barbiturici della madre e dare fuoco all'appartamento simbolo della sua classe sociale.
Insomma, pur con tutti i limiti tecnici, abbiamo due personaggi come minimo curiosi.
Il deus ex machina della vicenda è un distinto signore giapponese, che compra un appartamento nella palazzina, e diventa l'anello di congiunzione fra le due protagoniste.
Devo dire che ho anche riso, leggendo questo libro:
"mi pare che solo la psicanalisi possa competere con il cristianesimo nella predilezione per le sofferenze prolungate" dice Paloma quando sua madre festeggia i dieci anni di analisi;
e ho riflettuto, anche, quando Renée si trova per caso a sfogliare la tesi di filosofia di Colombe, qualcosa di così cavilloso e autoreferenziale da far dire alla povera portinaia, svegliata alle 7 del mattino per essere avvertita del pacco in arrivo:
" questo è il funzionamento dell'università: se vuoi far carriera prendi un testo secondario ed esotico, ancora poco studiato, ricercavi un'intenzione che nemmeno l'autore vi aveva visto, deformalo a tal punto da farlo sembrare un testo originale, consacra un anno della tua vita a questo gioco indegno a spese di una collettività che si sveglia per te alle 7."
insomma, Renée arriva a dire che la filosofia è la divagazione della ricerca.
Non vi arrendete ai limiti del libro, che rivendica la stessa umiltà della sua vera protagonista, Renée, e poi sorprendetevi alla fine, quando con un tocco di pura maestria l'autrice ribalta i limiti tecnici del doppio punto vista in prima persona, potendosi permettere sia il lusso di trascinare la storia oltre il punto del non ritorno di un colpo di scena decisivo, sia di scrivere due finali, contigui e opposti.
Non più testa o croce, ma testa e croce nel finale, che in ultima analisi è sempre ciò che determina il giudizio sul libro.


Nessun libro per me è stato tanto doppio come questo.
Nel gioco di parole, nella trama della storia, nell'intreccio con chi me l'ha regalato.
Forse la mia storia, da cui è partito questo libro, era accessoria al libro stesso.
Forse non avrei mai letto "L'eleganza del riccio" se un Riccio non me l'avesse regalato.
Mi piace pensare che ogni libro è anche la storia di come è arrivato a noi.







BISCOTTI AL MALTO FIORE PER UN MONDO MIGLIORE





autore: Laura Sandi
prima uscita: 2009 
casa editrice: Mondadori 
prezzo: 18 euro




"Biscotti al Malto Fiore per un mondo Migliore", recitano i due settenari in rima; il punto esclamativo non c'è, ma si sente.
In quanto sintesi massima del libro, il titolo di solito anticipa il contenuto, ma in questo caso anche la forma; ed infatti, prima della storia divertente e leggera come una stella filante, è la scrittura di Laura Sandi a mostrare le sue grazie, una scrittura che non eccede di una sola parola pur avvalendosi, senza troppe riserve, di avverbi ed aggettivi che in qualsiasi altro caso risulterebbero logori.
Ecco, la lingua di Laura Sandi è così sincrona allo stile della protagonista e allo sviluppo della storia, che un'associazione di parole quali "mani smisuratamente grandi e forti" non pecca di banalità, perché Leda, enfant prodige nella dimensione favolosa in cui tutti i bambini lo sono, non potrebbe descrivere che con tali parole le mani di suo padre.
Basterà dire che Leda vive in una torre d'avorio con due genitori scultori di opere a scala e a numero inversamente proporzionale - il padre, russo e immobile come nella migliore tradizione sovietica, lavora su pietre così grandi che lo fanno somigliare più ad un arrampicatore delle dolomiti che ad un artista; la madre, dubbia come un ologramma, riproduce i medesimi lavori in dimensioni ridotte e in numero industriale.
                             
                                                                                                                             "Grazie a mio padre ogni tanto diventavamo ricchissimi, ma grazie a mia madre eravamo ricchi tutti i giorni."


IO NON HO PAURA

Aggiungi didascalia


autore: Niccolò Ammaniti
prima uscita: 2001
casa editrice: Einaudi
prezzo: 11 euro
sinossi:
voto: 7










Niccolò Ammaniti è uno di quegli scrittori italiani che, insieme a Paolo Giordano, Margaret Mazzantini, Alessandro Baricco, Tiziano Scarpa, Silvia Avallone e molti altri, ha ammaliato le giurie del Campiello e dello Strega e imbestialito i critici letterari.
C'è una certa categoria di lettori che sistematicamente ignora e disdegna questi scrittori, i cui volumi pubblicizzatissimi vengono esposti a modo di ripetizione seriale nelle vetrine di tutte le più onorevoli librerie. Devo ammettere che io stessa, un po' per pregiudizio personale, un po' per assidua frequentazione di lettori snob come o peggio di me, ho spesso evitato questi autori, ancora più volentieri se a seguito del trionfo editoriale veniva la celebrazione cinematografica.
"Io non ho paura" ha tutte le credenziali perché un lettore come me lo scarti.
Niccolò Ammaniti ha vinto lo Strega ("Come Dio comanda", Mondadori 2007) e i suoi libri alla Feltrinelli non sono esposti con gli altri in ordine alfabetico, ma hanno la propria pila, in più Salvatores ha girato ben due film tratti dai suoi romanzi ("Io non ho paura", 2003  - "Come dio comanda", 2008).

"Io non ho paura" l'ho comprato alla stazione di Siena.
Era metà Settembre e l'estate sembrava non essere calata di un giorno, il tema uscito all'esame per la selezione del dottorato mi aveva colto del tutto impreparata, il proprietario dell'albergo mi aveva sbattuta fuori a tradimento, avevo sbagliato la direzione della navetta urbana - e così prima di arrivare alla stazione mi ero fatta il giro di tutto il territorio senese - e ovviamente avevo perso la mia coincidenza e dovevo aspettare un paio d'ore alla stazione per quella successiva.
Alla stazione c'era un'edicola e trascinandomi dietro la valigia senza ruote, pesante come una carogna, mi ero fatta un giro tra i pochi best-seller disponibili, e mi ero soffermata su un Einaudi stile libero, forse perché ormai la casa editrice spesso mi condiziona più degli autori, o forse perché quel caldo alto e fisso mi aveva così istupidita che non riuscivo a riconoscere altro che il caldo stesso, e quella copertina non evocava niente che identico caldo.
L'aspettativa di appagamento, comunque, era che il libro mi aiutasse ad addormentarmi durante il viaggio, per distogliermi dal pensiero della pessima figura d'essere stata la prima ad aver consegnato, in bianco, appena un quarto d'ora dopo l'inizio del tempo disponibile.
A distanza di pochi minuti diversi altri mi avevano seguita: tanto, ormai, l'ammissione di ignoranza portava la mia faccia.

"Va bene, lo compro. E' stata una giornata dura e dopo massimo venti pagine mi stanco, m'abbiocco e sogno quel che ho letto."
E invece è andata diversamente.

La storia è ambientata in un sud cristallizzato, ad Acqua Traverse, una frazione di quattro case in mezzo ai campi di grano.
Nessuno sa il perché di quel nome, acqua non ce n'è ad Acqua Traverse, a parte quella che porta l'autocisterna ogni due settimane.
E' il 1978, un'estate arroventata, che immobilizza gli adulti e li rinchiude sofferenti nelle case e permette ai bambini, più liberi che mai, di sconfinare oltre i campi già esplorati.
La storia si apre in una collina, con una gara a scalarla ed una penitenza.
Michele, un bambino di nove anni, onesto, curioso, responsabile, e più audace degli altri, nello svolgere una penitenza scopre qualcosa di orrido, favolosamente pauroso e per non dover condividere il suo tesoro con gli altri, tornando a casa in bicicletta non ne fa parola con nessuno. Per poter sostenere un segreto così terribile Michele si appella alle sue fantasie, agli eroi immaginari e tenta di spiegarsi ciò che ha trovato con le sue credenze di bambino, ma la vertigine della paura e la smania di conoscere lo spingono ad accertarsi di ciò che ha visto. Inizia così un andirivieni in bicicletta fra le quattro case di Acqua Traverse e il luogo della scoperta, e grazie alla potenza delle immagini evocate, la geografia dei luoghi della storia diventa molto nitida, mentre la consapevolezza di Michele cambia e si precisa ad ogni nuovo percorso da casa al luogo segreto.

Ascoltando e spiando i discorsi di suo padre e di tutti gli adulti di Acqua Traverse, che una notte si ritrovano nella sua cucina insieme ad un loro amico del nord, Michele si rende conto che l'orrore è reale, che la sofferenza è fisica e che la responsabilità della sua sconvolgente scoperta è degli uomini e non dei suoi mostri, e peggio ancora, la responsabilità è di tutti gli adulti di Acqua Traverse, e prima di tutto di suo padre.

I viaggi del nostro si fanno sempre più pericolosi, perché diventano avanscoperte per salvare quello che Michele capisce essere un bambino come lui, tenuto prigioniero in un buco scavato in cima ad una collina di grano; la narrazione si fa serrata e l'angoscia del lettore cresce man mano che Michele si avvicina alla verità, ma mentre oltre un certo punto il piccolo protagonista non riesce a comprendere il perché della segregazione del suo coetaneo Filippo, il lettore ha perfettamente intuito le dinamiche del sequestro e la tensione per l'ottenimento del riscatto. Lo iato che si crea tra il livello di consapevolezza del protagonista e quella del lettore, dà luogo ad una suspance che attanaglia entrambi per tutta la vicenda. Quando poi l'infantile e tragica vendita di un segreto per una lezione di guida, porta al faccia a faccia del bambino/liberatore con gli adulti/segregatori, gli eventi si fanno convulsi, finché Michele diventa il secondo corpo infantile su cui si sfoga la rabbia e la miseria degli adulti, in un finale che in qualche modo ricorda il mito di Temisto, che credeva di uccidere il figlio di un altro.

Questo libro si legge avidamente ed ha anche il pregio di poter essere perfettamente un libro per ragazzi: è infatti entrato nel canone scolastico, tant'è che andando ad indagare ho trovato molte testimonianze di adolescenti che hanno iniziato questo libro a scuola e poi l'hanno divorato.
Il film di Salvatores, poi, oltre ad avere una magnifica fotografia, trae il massimo risultato dalle potenzialità del libro ed attenua leggermente la tragicità del finale.

Una nota negativa è sull'uso dei tempi, a volte un po' estroso. Ammaniti narra in prima persona dal punto di vista del Michele di nove anni e usa il passato prossimo per dare una certa simultaneità alla storia, avvalendosi dell'imperfetto per le azioni continuative. A volte però nel bel mezzo di una sequenza il Michele bambino diventa Michele adulto e si mette a ricordare in trapassato prossimo alcune abitudini di quando era bambino, creando un'anteriorità temporale assolutamente illogica rispetto all'azione principale, quella a cui si riferisce la digressione, che è narrata in passato prossimo. E' come se si creasse un flash-back nell'anticipazione, come se il Michele adulto parlasse da un tempo anteriore a quello del Michele bambino. Questo crea un effetto abbastanza straniante e poco organico con gli strumenti e le finalità della narrazione scelta.
Forse, una velleità di troppo.